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Anche se molti di noi credono il contrario,
la scienza non è destinata a dirci "la verità" sul mondo: non nel senso,
almeno, di una descrizione assolutamente completa ed esauriente di tutti
gli aspetti della realtà fisica e delle loro relazioni reciproche, né di
una spiegazione incontrovertibile e definitiva delle cause ultime dei
fenomeni che osserviamo. A proposito delle cause, vale ancora
l’atteggiamento modesto di Newton che, di fronte alle richieste dei suoi
critici di spiegare la "natura" della forza di attrazione
gravitazionale, ammetteva di non conoscerla, e di non volersi lanciare
in spiegazioni prive del necessario fondamento: "hypotheses non
fingo", "non invento ipotesi". In realtà di "ipotesi" è costruita tutta
la scienza: ipotesi su descrizioni più o meno accurate dei fenomeni,
"modelli" che dall’accumulo sempre crescente di materiali derivati
dall’osservazione scelgono quelli più suscettibili di essere messi in
relazione tra loro e li organizzano, li connettono in una rete di
rapporti esprimibili in forma matematica: quello che, in termini
moderni, si chiama una "teoria scientifica". Questo è tanto più vero
quando, dal XVII secolo in poi, la fisica moderna si è addentrata sempre
più nella descrizione di due regioni del mondo molto lontane dalla
nostra capacità di osservazione immediata: quella dell’infinitamente
grande (non solo i pianeti del sistema solare, ma le stelle e le
galassie e gli ammassi di galassie più lontane e i grandi spazi - vuoti?
- che stanno tra loro) e quella dell’infinitamente piccolo (non solo le
molecole che costituiscono la materia osservabile, ma gli atomi che
formano le molecole, e le entità ancora più piccole che costituiscono
gli atomi, le particelle elementari dotate di massa e/o di carica
elettrica, e gli ipotetici costituenti di quelle particelle, i quark, in
un gioco di riduzione al "sempre più piccolo" che ha del vertiginoso).
Le due grandi teorie fisiche che nel XX secolo hanno corretto, affinato
(o forse soppiantato) la fisica di Newton, cioè la teoria della
relatività di Einstein e la teoria dei quanti, ci hanno insegnato che
quelle due regioni del mondo, apparentemente così distanti, non lo sono
affatto, che le leggi del mondo microscopico, opportunamente impiegate,
spiegano anche il comportamento del mondo macroscopico. L’astrofisico e
il cosmologo, quindi, oggi maneggiano gli stessi elementi con cui ha a
che fare il fisico delle particelle: elettroni, protoni, neutroni, e poi
neutrini, mesoni, muoni, fotoni, gluoni, le forme di organizzazione
basilari della materia, insomma, possono essere studiate sulla terra,
nei complicatissimi e costosissimi laboratori costruiti dall’uomo, così
come nel cosmo, nei lontani spazi siderali e nel cuore delle stelle, per
tentare di ricostruire, nel modo più plausibile possibile, le origini e
la storia dell’universo in cui viviamo - e forse anche il suo futuro.
L’astrofisica, che oggi rappresenta la componente più importante degli
studi astronomici, è una branca della fisica relativamente giovane,
perché iniziò a svilupparsi alla metà del XIX secolo. Il suo strumento
di indagine principale fu lo spettroscopio, cioè uno strumento in grado
di scomporre la radiazione luminosa (e successivamente ogni altro tipo
di radiazione elettromagnetica, dato che la luce visibile non è che un
caso particolare di quest’ultima) nelle sue componenti fondamentali, che
per la luce sono le frequenze delle singole radiazioni monocromatiche,
corrispondenti ai colori fondamentali. Attraverso l’analisi di questi
insiemi di radiazioni (appunto gli "spettri") emessi dai corpi celesti,
spettri che iniziarono a essere interpretati con l’ausilio delle teorie
delle radiazioni sviluppate tra le fine del XIX secolo e l’inizio del
XX, è possibile risalire alla composizione dei suddetti corpi, cioè agli
elementi chimici che li compongono. Spettroscopia e spettrografia (la
registrazione degli spettri su lastre fotografiche) hanno dovuto basarsi
unicamente sulla luce visibile fino a circa la metà di questo secolo, ma
dalla fine degli anni Quaranta lo sviluppo della radioastronomia ha
permesso di analizzare anche altri spettri, relativi alle radiazioni nel
campo dell’ultravioletto e dell’infrarosso (cioè le radiazioni con
frequenza rispettivamente maggiore e minore delle frequenze visibili
all’occhio umano). Negli anni Sessanta, poi, la costruzione e la messa
in orbita dei satelliti hanno consentito progressi ancora più veloci,
culminati (per il momento) con la messa in orbita attorno alla terra di
un telescopio spaziale, il telescopio Hubble. Negli ultimi trenta o
quarant’anni l’analisi dell’intero spettro della radiazione
elettromagnetica delle stelle ha portato alla scoperta di sempre
maggiori informazioni sulla loro natura, sui processi chimici di cui
sono sede, sugli effetti macroscopici e microscopici di questi processi,
sulla loro storia. Gli scienziati hanno così potuto affinare le loro
teorie e cominciare a dare risposte sempre più concrete e complesse
(mai, però, definitive) alle domande che da sempre l’uomo si pone sul
cosmo: l’universo ha avuto un inizio? è finito o infinito? qual è la sua
forma, la sua struttura? l’universo avrà una fine?
Risposte non definitive, dicevamo. Ciò non toglie che, come sempre
accade, la comunità degli scienziati abbia finito per raccogliersi
attorno a una ipotesi, a un modello della storia e dello sviluppo del
cosmo, che sembra risultare preferibile: è la cosiddetta "teoria del big
bang". Essa non è accettata universalmente nella comunità scientifica, e
periodicamente vengono avanzate ipotesi alternative per superare le
contraddizioni ancora inerenti a quella teoria e per tener conto dei
"fatti" che essa non riesce a inglobare. Ma, a tutt’oggi, la teoria del
big bang è quella che ottiene il maggiore consenso fra gli scienziati, e
una teoria rivale in grado di scalzarla sicuramente non è ancora
apparsa. Secondo questa teoria, dunque, la storia dell’Universo come noi
lo conosciamo oggi sarebbe iniziata, in un momento variabile fra i 10 e
i 16 miliardi di anni fa, da una situazione estremamente, per così dire,
"concentrata", cioè da un Universo di dimensioni estremamente ridotte,
tendenti a zero, e invece di temperatura e densità elevatissime,
tendenti all’infinito. Questa situazione avrebbe prodotto appunto una
"grande esplosione", in cui per alcuni minuti le particelle elementari e
le loro opposte (le "antiparticelle") avrebbero continuato a
distruggersi reciprocamente liberando enormi quantità di energia che
davano luogo ad altre coppie di particelle e antiparticelle, e così via;
fino a che, per qualche minuto, si sarebbero create condizioni di
temperatura e densità tali da consentire l’agglutinarsi di protoni e
neutroni in nuclei di elio e di deuterio (un isotopo dell’idrogeno), e
quindi la materia avrebbe iniziato a prendere la forma che conosciamo
oggi. Le stelle (ma anche il gas interstellare presente fra le galassie)
non sarebbero altro che le eredi dei primitivi agglomerati formatisi nei
primi 7 minuti successivi al big bang, e che hanno cominciato da quel
momento ad allontanarsi reciprocamente. Con questa teoria si
spiegherebbe dunque l’allontanamento delle galassie fra loro con
velocità proporzionale alla distanza, la spiegazione proposta nel 1929
dall’astronomo Edwin Hubble per dar conto dello spostamento verso il
rosso delle righe spettrali delle galassie. Ma la teoria del big bang si
accorda anche con la presenza all’interno delle stelle di deuterio, una
sostanza che non potrebbe essersi formata successivamente, e con la
cosiddetta "radiazione cosmica di fondo", energia raggiante uniforme
alla temperatura di 2,7 gradi Kelvin (circa -270°C), scoperta nel 1964.
Certo, come abbiamo detto, molti problemi restano insoluti. Come restano
insoluti nella vita delle stelle: gli scienziati sono riusciti a
ricostruire la storia delle stelle perché esse sono visibili grazie alla
luce, che ha una velocità finita anche se molto grande (ca. 300.000
km/sec), e quindi noi osserviamo oggi le stelle più lontane in uno
stadio molto primitivo della sua evoluzione. Così oggi sappiamo che il
destino delle stelle di massa molto elevata è quello di diventare
supergiganti, esplodere in una supernova e poi collassare in una stella
di neutroni (che costituirà forse un buco nero); mentre quello delle
stelle di massa minore, come il nostro Sole, è quello di trasformarsi
dapprima in giganti rosse e poi in nane bianche. Ma gli enigmi
rimangono, come le quasar, come il calcolo della massa dell’universo,
che presupporrebbe una enorme quantità di materia non rilevabile.
Problemi aperti alla ricerca...
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